"Quando noi siamo mossi al pianto non per le nostre sofferenze, ma per quelle altrui, ciò accade perché ci trasferiamo vivamente con la fantasia al posto del sofferente, o vediamo anche nel suo destino la sorte dell'intera umanità e quindi, soprattutto, la nostra, e allora, dopo un'ampia deviazione, torniamo sempre a piangere su noi stessi, sentiamo compassione per noi stessi."Questo, scrive Schopenhauer, vale anche per il pianto per la morte di persone care.
"Non è la propria perdita che il dolente piange: ci si vergognerebbe di simili lacrime egoistiche; egli, al contrario, si vergogna a volte di non piangere. Anzitutto egli piange certamente la sorte del defunto, ma questo avviene anche quando la morte è stata una liberazione desiderabile dopo lunghe, grandi e inguaribili sofferenze. Sostanzialmente, dunque, lo coglie la compassione per la sorte di tutta l'umanità, che è vittima della finitezza, in conseguenza della quale ogni vita, anche solerte e ricca di attività, deve spegnersi e finire nel nulla: in questa sorte dell'umanità, però, egli soprattutto vede la propria."
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